venerdì 13 maggio 2016

Rappresaglia di stato contro i ribelli del 15 ottobre 2011

15 OTTOBRE 2011: SENTENZA DI PRIMO GRADO. 61 ANNI DI CARCERE


CiPgcpdWsAA1oHL 300x225A Roma nella tarda mattinata di oggi, giovedì 12 maggio, è arrivata la sentenza di primo grado per il processo in merito alla giornata di rabbia del 15 ottobre 2011 a Roma.
17 compagne e compagni avevano sulle spalle un totale di richieste di carcere da parte dell’accusa di 115 anni. La sentenza ha condannato 15 compagni e compagne a oltre 61anni di carcere. La condanna più alta è di 9 anni contro un compagno accusato di aver appiccato l’incendio di un mezzo blindato a piazza San Giovanni. La più “bassa”, 4 mesi.
I giudici della nona sezione penale ha inoltre disposto una provvisionale da 60mila euro in favore di un carabiniere, 80 mila euro per i ministeri di Interni e Difesa, 40 mila euro per il dicastero dell’Economia, 60 mila euro al Comune di Roma e 20 mila ad Ama, l’azienda dei rifiuti.
 I giudici hanno poi disposto la trasmissione degli atti alla  Procura per “…valutare la posizione di rappresentanti delle forze dell’ordine e per valutarne le condotte avute in occasione della manifestazione del 15 ottobre 2011″.

Chi si ribella non è mai solo/a.
Sono passati quasi 5 anni: era il 15 ottobre del 2011, le strade di Roma si erano riempite.
In quel periodo, dopo le forti proteste e rivolte che avevano acceso la “primavera araba”, anche in Europa e negli Stati Uniti, in seguito all’appello lanciato dai movimenti 15M nati a Madrid, si scendeva in piazza ovunque, davanti e contro i palazzi del Potere, nel rifiuto delle politiche di austerità adottate dai governi come ricetta alla crisi economica in atto.
A Roma quel giorno c’erano centinaia di migliaia di persone: non mancavano i carri di partiti, sindacati, organizzazioni di movimento. C’erano, come si suol dire, tutti.
“Tutti insieme”, i discorsi contro la crisi, oppure contro il sistema della crisi, contro il capitalismo e lo stato di diritto.
Il comitato promotore accettò di non manifestare davanti alle sedi governative, così come deciso dalla Questura; ci furono comunque tantissimi gesti di rivolta e diverse ore di scontri con le forze dell’ordine: un susseguirsi di cariche e una continua resistenza a esse.
In tanti e tante, durante quella giornata, non sentirono di reprimere la propria rabbia. Non scapparono, ma reagirono, perché troppo forte l’odio per la miseria economica e culturale cui il sistema capitalista ci costringe ogni giorno.
Perché, oggi come ieri, come il 15 ottobre del 2011, in questo mondo si determina lo sfruttamento da parte di pochi nei confronti di molte\i, la guerra e lo sterminio delle popolazioni oppresse, la distruzione delle risorse naturali e della terra, tutto in nome del profitto, dell’arricchimento, del denaro.
Ed è inevitabile che, per tutto questo, la rabbia possa anche esplodere.
Poi ne seguì il tormentone mediatico, quello dei discorsi contro la violenza e per il rispetto della legalità, a cui si affiancarono le prese di distanza dai rivoltosi, sostenute anche da coloro che avevano partecipato a quella manifestazione, nel tentativo di recuperare ciò che era loro sfuggito di mano.
Oltre a questo, la caccia ai resistenti di Piazza San Giovanni e ai rivoltosi del corteo, attraverso il ricorso a fotografie e video, con il prezioso contributo delatorio di innocenti cittadini o di zelanti tutori dell’ordine interno al corteo.
Dopo i manganelli e i caroselli della celere nelle strade, scattarono i primi arresti seguiti da ampie indagini e infine i processi. Inizia la risposta degli apparati giudiziari al soldo dei Poteri, che avvertirono il campanello d’allarme.
In un primo momento, decine di denunce e diversi arresti nei confronti di chi rimase in piazza San Giovanni. Poi, un filone di indagine specifico per il blindato dei Carabinieri andato in fiamme. Per finire, un ulteriore filone di inchiesta volto a sostenere l’architettura premeditata dell’esplosione di rabbia di quella giornata.
Quindi, processi e condanne anche in direttissima per i primi arrestati, con l’accusa di resistenza pluriaggravata, poi una punizione esemplare attraverso il ricorso al reato di devastazione e
saccheggio per i militanti di Azione Antifascista Teramo imputati dell’assalto al blindato; di nuovo il ricorso al reato di devastazione e saccheggio per le 18 persone rinviate a giudizio nell’ultimo filone di inchiesta.
Nei tribunali un accanimento feroce da parte dei Pubblici Ministeri, il ricorso al reato di devastazione e saccheggio come monito e punizione esemplare: il solito leitmotiv del colpirne alcuni per intimorire tutti e tutte.
È successo per la rivolta di Genova nel 2001, per il corteo antifascista di Milano nel 2006; si sono adottate queste misure anche lo scorso anno riguardo la manifestazione antifascista di Cremona e per il corteo No Expo a Milano.
È un dato di fatto che questo strumento, eredità del codice penale del ventennio fascista, venga adoperato sempre più frequentemente per sanzionare comportamenti di piazza di natura tumultuosa, affermando un chiaro indirizzo politico da parte della magistratura e la sua conseguente attestazione negli ambiti della giurisprudenza.
Detto in maniera più esplicita: manifestanti buoni e manifestanti cattivi. Il recinto di ciò che è consentito e quello che non lo è. Finché si esprime dissenso a parole, va tutto bene (per il momento), siamo in Democrazia. Con la variabile sempre presente che a sostenere questo indirizzo non siano solo gli inquirenti.
Tra tutti coloro che erano in piazza quel giorno, dopo il processo conclusosi in Cassazione con la conferma del reato di devastazione e saccheggio per i militanti di Azione Antifascista Teramo, altre 17 persone, a cui sarebbe stato aggiunto anche Chucky, se non ci avesse lasciato a causa della sua morte, potrebbero andare a sentenza il prossimo 12 Maggio 2016, a seconda che il PM Minisci decida di replicare o meno alle argomentazioni difensive.
L’accusa ha fatto richiesta di 115 anni complessivi per queste 17 persone rimaste ancora imputate. I reati contestati vanno dalla resistenza aggravata a pubblico ufficiale alla devastazione, dalle lesioni all’incendio doloso, ma anche capi d’imputazione ‘minori’ come turbativa dell’ordine pubblico e interruzione di pubblico servizio. La richiesta più alta è di 11 anni di carcere per un manifestante, le altre oscillano dai 3 ai 9 anni di reclusione. A queste si aggiunge la richiesta di risarcimento danni da parte di una banca, comune di Roma, AMA e ATAC, alcuni ministeri e di agenti delle forze dell’ordine che si sono costituiti parte civile.
Un appello alla solidarietà rivolto “generalmente”, oltre a essere un’illusione e una menzogna rivolta a sé stessi, a 5 anni di distanza da quella giornata, cadrebbe nel vuoto.
La consapevolezza di questo avviene dopo anni di udienze svolte qui a Roma, di posizioni dissociatorie assunte anche in sede processuale da parte di alcune difese, di silenzi perpetrati anche da parte delle stesse realtà che il giorno prima inneggiavano alla rivolta, quello dopo si nascondevano intimorite.
Eppure, pur considerando tutto questo, si preferisce guardare ad altro.
Chi si è ribellato quel giorno, come in altri momenti, non resta solo, perché la solidarietà non è una parola vuota di senso, ma pratica di vicinanza e compartecipazione tanto ideale quanto concreta.
Se intorno la giornata del 15 Ottobre e la rivolta che l’ha animata è in atto un’operazione di rimozione, noi invece non vogliamo dimenticare.
Se intorno le persone che sono imputate si vuole creare isolamento, non è nostra intenzione lasciarle sole.
Se rispetto l’espressione del dissenso c’è l’intenzione, da più parti, di tracciare il selciato del consentito, il sentiero della rivolta non conosce percorsi definiti da nessuno.
Perché un giorno, alcune volte, o tutti i giorni, ci si può trovare anche “tutti insieme” sotto lo stesso cielo, ma è l’orizzonte verso cui ci si muove che fa la differenza.
A chi ha vissuto la rivolta del 15 Ottobre 2011.
A chi non dimentica.
A chi pensa che coprirsi il volto durante una manifestazione non voglia dire essere infiltrati.
A chi si copre il volto quando gli pare.
A chi vive di rivolta.


Rete Evasioni.

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