15 OTTOBRE 2011: SENTENZA DI PRIMO GRADO. 61 ANNI DI CARCERE
CiPgcpdWsAA1oHL 300x225A Roma nella tarda mattinata di oggi,
giovedì 12 maggio, è arrivata la sentenza di primo grado per il processo in
merito alla giornata di rabbia del 15 ottobre 2011 a Roma.
17 compagne e compagni avevano sulle spalle un totale di richieste
di carcere da parte dell’accusa di 115 anni. La sentenza ha condannato 15
compagni e compagne a oltre 61anni di carcere. La condanna più alta è di 9 anni
contro un compagno accusato di aver appiccato l’incendio di un mezzo blindato a
piazza San Giovanni. La più “bassa”, 4 mesi.
I giudici della nona sezione penale ha inoltre disposto una
provvisionale da 60mila euro in favore di un carabiniere, 80 mila euro per i
ministeri di Interni e Difesa, 40 mila euro per il dicastero dell’Economia, 60
mila euro al Comune di Roma e 20 mila ad Ama, l’azienda dei rifiuti.
I giudici hanno poi
disposto la trasmissione degli atti alla
Procura per “…valutare la posizione di rappresentanti delle forze
dell’ordine e per valutarne le condotte avute in occasione della manifestazione
del 15 ottobre 2011″.
Chi si ribella non è mai solo/a.
Sono passati quasi 5 anni: era il 15 ottobre del 2011, le
strade di Roma si erano riempite.
In quel periodo, dopo le forti proteste e rivolte che
avevano acceso la “primavera araba”, anche in Europa e negli Stati Uniti, in
seguito all’appello lanciato dai movimenti 15M nati a Madrid, si scendeva in
piazza ovunque, davanti e contro i palazzi del Potere, nel rifiuto delle
politiche di austerità adottate dai governi come ricetta alla crisi economica
in atto.
A Roma quel giorno c’erano centinaia di migliaia di persone:
non mancavano i carri di partiti, sindacati, organizzazioni di movimento.
C’erano, come si suol dire, tutti.
“Tutti insieme”, i discorsi contro la crisi, oppure contro
il sistema della crisi, contro il capitalismo e lo stato di diritto.
Il comitato promotore accettò di non manifestare davanti
alle sedi governative, così come deciso dalla Questura; ci furono comunque
tantissimi gesti di rivolta e diverse ore di scontri con le forze dell’ordine:
un susseguirsi di cariche e una continua resistenza a esse.
In tanti e tante, durante quella giornata, non sentirono di
reprimere la propria rabbia. Non scapparono, ma reagirono, perché troppo forte
l’odio per la miseria economica e culturale cui il sistema capitalista ci
costringe ogni giorno.
Perché, oggi come ieri, come il 15 ottobre del 2011, in
questo mondo si determina lo sfruttamento da parte di pochi nei confronti di
molte\i, la guerra e lo sterminio delle popolazioni oppresse, la distruzione
delle risorse naturali e della terra, tutto in nome del profitto,
dell’arricchimento, del denaro.
Ed è inevitabile che, per tutto questo, la rabbia possa
anche esplodere.
Poi ne seguì il tormentone mediatico, quello dei discorsi
contro la violenza e per il rispetto della legalità, a cui si affiancarono le
prese di distanza dai rivoltosi, sostenute anche da coloro che avevano
partecipato a quella manifestazione, nel tentativo di recuperare ciò che era
loro sfuggito di mano.
Oltre a questo, la caccia ai resistenti di Piazza San
Giovanni e ai rivoltosi del corteo, attraverso il ricorso a fotografie e video,
con il prezioso contributo delatorio di innocenti cittadini o di zelanti tutori
dell’ordine interno al corteo.
Dopo i manganelli e i caroselli della celere nelle strade,
scattarono i primi arresti seguiti da ampie indagini e infine i processi.
Inizia la risposta degli apparati giudiziari al soldo dei Poteri, che
avvertirono il campanello d’allarme.
In un primo momento, decine di denunce e diversi arresti nei
confronti di chi rimase in piazza San Giovanni. Poi, un filone di indagine
specifico per il blindato dei Carabinieri andato in fiamme. Per finire, un
ulteriore filone di inchiesta volto a sostenere l’architettura premeditata
dell’esplosione di rabbia di quella giornata.
Quindi, processi e condanne anche in direttissima per i
primi arrestati, con l’accusa di resistenza pluriaggravata, poi una punizione
esemplare attraverso il ricorso al reato di devastazione e
saccheggio per i militanti di Azione Antifascista Teramo
imputati dell’assalto al blindato; di nuovo il ricorso al reato di devastazione
e saccheggio per le 18 persone rinviate a giudizio nell’ultimo filone di
inchiesta.
Nei tribunali un accanimento feroce da parte dei Pubblici
Ministeri, il ricorso al reato di devastazione e saccheggio come monito e
punizione esemplare: il solito leitmotiv del colpirne alcuni per intimorire
tutti e tutte.
È successo per la rivolta di Genova nel 2001, per il corteo
antifascista di Milano nel 2006; si sono adottate queste misure anche lo scorso
anno riguardo la manifestazione antifascista di Cremona e per il corteo No Expo
a Milano.
È un dato di fatto che questo strumento, eredità del codice
penale del ventennio fascista, venga adoperato sempre più frequentemente per
sanzionare comportamenti di piazza di natura tumultuosa, affermando un chiaro
indirizzo politico da parte della magistratura e la sua conseguente
attestazione negli ambiti della giurisprudenza.
Detto in maniera più esplicita: manifestanti buoni e
manifestanti cattivi. Il recinto di ciò che è consentito e quello che non lo è.
Finché si esprime dissenso a parole, va tutto bene (per il momento), siamo in
Democrazia. Con la variabile sempre presente che a sostenere questo indirizzo
non siano solo gli inquirenti.
Tra tutti coloro che erano in piazza quel giorno, dopo il
processo conclusosi in Cassazione con la conferma del reato di devastazione e
saccheggio per i militanti di Azione Antifascista Teramo, altre 17 persone, a
cui sarebbe stato aggiunto anche Chucky, se non ci avesse lasciato a causa
della sua morte, potrebbero andare a sentenza il prossimo 12 Maggio 2016, a
seconda che il PM Minisci decida di replicare o meno alle argomentazioni
difensive.
L’accusa ha fatto richiesta di 115 anni complessivi per
queste 17 persone rimaste ancora imputate. I reati contestati vanno dalla
resistenza aggravata a pubblico ufficiale alla devastazione, dalle lesioni
all’incendio doloso, ma anche capi d’imputazione ‘minori’ come turbativa
dell’ordine pubblico e interruzione di pubblico servizio. La richiesta più alta
è di 11 anni di carcere per un manifestante, le altre oscillano dai 3 ai 9 anni
di reclusione. A queste si aggiunge la richiesta di risarcimento danni da parte
di una banca, comune di Roma, AMA e ATAC, alcuni ministeri e di agenti delle
forze dell’ordine che si sono costituiti parte civile.
Un appello alla solidarietà rivolto “generalmente”, oltre a
essere un’illusione e una menzogna rivolta a sé stessi, a 5 anni di distanza da
quella giornata, cadrebbe nel vuoto.
La consapevolezza di questo avviene dopo anni di udienze
svolte qui a Roma, di posizioni dissociatorie assunte anche in sede processuale
da parte di alcune difese, di silenzi perpetrati anche da parte delle stesse
realtà che il giorno prima inneggiavano alla rivolta, quello dopo si
nascondevano intimorite.
Eppure, pur considerando tutto questo, si preferisce
guardare ad altro.
Chi si è ribellato quel giorno, come in altri momenti, non
resta solo, perché la solidarietà non è una parola vuota di senso, ma pratica
di vicinanza e compartecipazione tanto ideale quanto concreta.
Se intorno la giornata del 15 Ottobre e la rivolta che l’ha
animata è in atto un’operazione di rimozione, noi invece non vogliamo
dimenticare.
Se intorno le persone che sono imputate si vuole creare
isolamento, non è nostra intenzione lasciarle sole.
Se rispetto l’espressione del dissenso c’è l’intenzione, da
più parti, di tracciare il selciato del consentito, il sentiero della rivolta
non conosce percorsi definiti da nessuno.
Perché un giorno, alcune volte, o tutti i giorni, ci si può
trovare anche “tutti insieme” sotto lo stesso cielo, ma è l’orizzonte verso cui
ci si muove che fa la differenza.
A chi ha vissuto la rivolta del 15 Ottobre 2011.
A chi non dimentica.
A chi pensa che coprirsi il volto durante una manifestazione
non voglia dire essere infiltrati.
A chi si copre il volto quando gli pare.
A chi vive di rivolta.
Rete Evasioni.