Appello per la costruzione di uno spezzone anticapitalista e di classe al corteo del 19 ottobre a Roma.
Iniziamo dalla fine: perché scenderemo in piazza il 19 ottobre? Per iniziare un percorso faticoso e lungo, ma necessario. Per provare a rimettere al centro le questioni del lavoro e dei diritti ad esso connessi, ormai depennate dall’agenda politica dei governi, della maggior parte delle organizzazioni politiche e – paradossalmente – anche sindacali, in nome dei sacrifici “necessari a salvare il nostro Paese”e dell’unità nazionale.
Iniziamo dalla fine: perché scenderemo in piazza il 19 ottobre? Per iniziare un percorso faticoso e lungo, ma necessario. Per provare a rimettere al centro le questioni del lavoro e dei diritti ad esso connessi, ormai depennate dall’agenda politica dei governi, della maggior parte delle organizzazioni politiche e – paradossalmente – anche sindacali, in nome dei sacrifici “necessari a salvare il nostro Paese”e dell’unità nazionale.
Queste
questioni ci chiamano in causa tutti, in prima persona. Chi si trova
nella fascia tra i 20 e i 30 ed è stato sostanzialmente privato del
futuro e vive un presente di disoccupazione o, nel “migliore” dei casi,
di precarietà assoluta (senza prospettive né sul piano professionale, né
su quello esistenziale); chi di anni ne ha molti di più, e casomai un
lavoro ce l’ha, ma rischia continuamente di perderlo e vede
quotidianamente negati i suoi diritti.
Questo è il quadro davanti al quale ci ha messo la crisi e questa, per quanto ambiziosa possa sembrare, è la battaglia che oggi più che mai ci sembra necessario intraprendere: quella per il diritto al lavoro, a lavorare meno, a lavorare tutti, in sicurezza e a parità di salario. Perché chi sta “dentro” al mercato del lavoro possa non morire di fatica e di ipersfruttamento e chi sta “fuori” entri dentro e prenda parola, libero da logiche assistenziali, per incidere direttamente sulle forme del dominio.
Dal 2007 in poi con la crisi si è prodotta una serie di trasformazioni rapidissime e decisive: c’è stata una rapida e incisiva concentrazione dei capitali, sono cambiate le relazioni fra gli Stati, sono scoppiate guerre e rivolte, e l’assetto dell’Unione Europea si è ulteriormente gerarchizzato.
Il paesi locomotiva dell’UE, Francia e, soprattutto, Germania hanno fatto valere il loro peso e tentato di “prendere il controllo” di quelli che versavano in condizioni più critiche, in particolare Grecia, Portogallo, Italia; l’operazione di “salvataggio” dei “paesi in difficoltà” messe in campo dalla Banca Centrale Europea (l’Outright Monetary Transactions, cioè l’acquisto diretto da parte della BCE di titoli di stato a breve termine emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata) è infatti vincolata alla disponibilità del paese “da salvare” di assoggettarsi allo European Stability Mechanism, un programma di stabilità che di fatto esautorerà, ancora più di adesso, la sovranità nazionale. Ci troviamo dunque di fronte ad un vero e proprio campo di battaglia nel quale diverse frazioni di borghesia – di paesi differenti in competizione tra loro o, trasversalmente, all’interno del medesimo paese – si affrontano per difendere e affermare i loro interessi.
La parziale anomalia della struttura produttiva e sociale del capitalismo italiano ha fatto sì che gli effetti della crisi siano stati più forti nel nostro Paese e abbiano portato a un tentativo evidente di ridisegnare anche gli equilibri interni alle stesse classi dominanti (il Governo Monti è stato interprete per eccellenza di questo tentativo, cercando di mistificarlo dietro la retorica della “salvezza della Nazione”). Una frazione della grande borghesia italiana, più legata ai movimenti internazionali di capitale, sta infatti provando a sgominare e assorbire tutti quei soggetti che vivono “parassitariamente” del plusvalore estratto nella sfera della produzione (la filiera del commercio, gran parte dei professionisti e di quei ceti corporativi che sopravvivono grazie a licenze e privilegi, “gli esperti della politica” e il management pubblico).
Ma veniamo a noi.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un attacco violentissimo contro il salario diretto, indiretto e differito (che ha riguardato anche i cosiddetti “cedi medi”, che vanno impoverendosi di giorno in giorno e la cui progressiva estinzione è sintomo della polarizzazione che sempre più contraddistingue anche il nostro Paese), ad un aumento dei ritmi di lavoro e ad una compressione dei diritti. Questa compressione ha riguardato le libertà politiche in senso generale – con un succedersi di governi tecnici e di “larghe intese”, una sempre maggiore militarizzazione dei territori e con una repressione violentissima e spesso “preventiva” di ogni forma di dissenso – ma anche la soppressione della democrazia sui posti di lavoro: la modifica dell’articolo 18, i diktat del piano Marchionne, la riforma Fornero e il recente accordo di rappresentanza – solo per citare alcuni esempi – vanno esattamente in questa direzione. Il tutto giustificato in maniera ideologica con la presunta insostenibilità del debito pubblico, che di certo non è esploso per favorire chi adesso sta subendo gli effetti più devastanti di questa crisi, e la necessità di “tranquillizzare” i mercati, che altro non sono che i capitali trasnazionali in cerca di valorizzazione.
Gli effetti silenziosi di una situazione così drammatica sono stati la ricerca di un lavoro all’estero o il ricorso ai risparmi familiari per sopravvivere.
Negli scorsi anni, nonostante il disagio e la rabbia sociale siano palpabili, non abbiamo assistito nei settori lavorativi a grandi mobilitazioni sia perché, e ci si scuserà la semplificazione, i sindacati confederali fanno ormai a tutti gli effetti da “tappo”, utilizzando ogni arma per bloccare le spinte dal basso che ogni tanto si producono, sia perché le situazioni di tensione che si sono create sono dipese quasi sempre dalla chiusura delle attività, sono partite cioè quando il potere collettivo dei lavoratori era già stato messo in discussione dalla loro espulsione dal ciclo produttivo. I momenti di piazza, anche importanti numericamente e radicali sul piano del conflitto, sono stati “esplosioni” di rabbia significative sul piano sociale, ma che hanno lasciato poco o niente sul piano politico.
A questi fallimenti, a questo immobilismo, spesso si è risposto rinunciando, o ripiegando su altre lotte – apparentemente più facili da vincere – mentre il nodo gordiano è sempre lì ad attenderci, quello del conflitto tra capitale e lavoro. Ma di cosa parliamo quando evochiamo questo conflitto, di cosa si tratta in fin dei conti? Parliamo dell’incompatibilità radicale (che viene mistificata in ogni modo) tra chi produce e chi beneficia della fatica altrui, tra chi è disoccupato e chi lo mantiene in stand by per poterlo meglio ricattare, tra chi aspira ad entrare nel mercato del lavoro e costruirsi un futuro e chi sceglie di tenerlo fuori in modo da far lavorare – e dunque pagare – meno persone, ma sfruttandole più intensamente e per più ore.
Da una parte ci siamo noi, dall’altra ci sono loro.
E se loro provano a confonderci con divisioni e contrapposizioni che non ci riguardano (la “troika” contro i P.I.G.S, i padri contro i figli, quelli che lavorano a tempo indeterminato – i “privilegiati” – contro i precari o quelli che lavorano contro quelli che sono disoccupati) allora il nostro primo compito è tracciare di nuovo, in maniera chiara e netta, la linea che concretamente ci separa.
La crisi economica ci offre tanti frutti avvelenati, ma è anche un’occasione per segnare questo confine, per individuare un punto di partenza dal quale ricominciare a combattere per i nostri diritti, per aprire nuovi spazi, organizzarsi e far ripartire un ciclo di lotte come è accaduto e sta accadendo in tanti Paesi nel mondo, in Turchia, in Nord Africa, in Brasile, in Messico. Queste lotte – alle quali siamo materialmente, concretamente connessi e non certo solo ideologicamente o “sentimentalmente” vicini, in quanto dal loro esito dipendono anche le nostre possibilità e prospettive – dimostrano che, a livello globale, esistono ancora le condizioni per sottrarre a chi ci sfrutta parte del suo potere, per contrastarlo, per provare a ribaltare la situazione. Queste lotte ci dicono che la linea di separazione di cui parlavamo non divide il mondo tra Nord e Sud o tra Est e Ovest e che siamo dalla stessa parte della barricata nella battaglia per riprenderci il lavoro, la giustizia sociale, il futuro.
Mica facile, ma dobbiamo provarci. Il 19 ottobre non cambierà il mondo, non assalteremo “il palazzo d’inverno”, ma da qualche parte bisogna cominciare.
Questo è il quadro davanti al quale ci ha messo la crisi e questa, per quanto ambiziosa possa sembrare, è la battaglia che oggi più che mai ci sembra necessario intraprendere: quella per il diritto al lavoro, a lavorare meno, a lavorare tutti, in sicurezza e a parità di salario. Perché chi sta “dentro” al mercato del lavoro possa non morire di fatica e di ipersfruttamento e chi sta “fuori” entri dentro e prenda parola, libero da logiche assistenziali, per incidere direttamente sulle forme del dominio.
Dal 2007 in poi con la crisi si è prodotta una serie di trasformazioni rapidissime e decisive: c’è stata una rapida e incisiva concentrazione dei capitali, sono cambiate le relazioni fra gli Stati, sono scoppiate guerre e rivolte, e l’assetto dell’Unione Europea si è ulteriormente gerarchizzato.
Il paesi locomotiva dell’UE, Francia e, soprattutto, Germania hanno fatto valere il loro peso e tentato di “prendere il controllo” di quelli che versavano in condizioni più critiche, in particolare Grecia, Portogallo, Italia; l’operazione di “salvataggio” dei “paesi in difficoltà” messe in campo dalla Banca Centrale Europea (l’Outright Monetary Transactions, cioè l’acquisto diretto da parte della BCE di titoli di stato a breve termine emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata) è infatti vincolata alla disponibilità del paese “da salvare” di assoggettarsi allo European Stability Mechanism, un programma di stabilità che di fatto esautorerà, ancora più di adesso, la sovranità nazionale. Ci troviamo dunque di fronte ad un vero e proprio campo di battaglia nel quale diverse frazioni di borghesia – di paesi differenti in competizione tra loro o, trasversalmente, all’interno del medesimo paese – si affrontano per difendere e affermare i loro interessi.
La parziale anomalia della struttura produttiva e sociale del capitalismo italiano ha fatto sì che gli effetti della crisi siano stati più forti nel nostro Paese e abbiano portato a un tentativo evidente di ridisegnare anche gli equilibri interni alle stesse classi dominanti (il Governo Monti è stato interprete per eccellenza di questo tentativo, cercando di mistificarlo dietro la retorica della “salvezza della Nazione”). Una frazione della grande borghesia italiana, più legata ai movimenti internazionali di capitale, sta infatti provando a sgominare e assorbire tutti quei soggetti che vivono “parassitariamente” del plusvalore estratto nella sfera della produzione (la filiera del commercio, gran parte dei professionisti e di quei ceti corporativi che sopravvivono grazie a licenze e privilegi, “gli esperti della politica” e il management pubblico).
Ma veniamo a noi.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un attacco violentissimo contro il salario diretto, indiretto e differito (che ha riguardato anche i cosiddetti “cedi medi”, che vanno impoverendosi di giorno in giorno e la cui progressiva estinzione è sintomo della polarizzazione che sempre più contraddistingue anche il nostro Paese), ad un aumento dei ritmi di lavoro e ad una compressione dei diritti. Questa compressione ha riguardato le libertà politiche in senso generale – con un succedersi di governi tecnici e di “larghe intese”, una sempre maggiore militarizzazione dei territori e con una repressione violentissima e spesso “preventiva” di ogni forma di dissenso – ma anche la soppressione della democrazia sui posti di lavoro: la modifica dell’articolo 18, i diktat del piano Marchionne, la riforma Fornero e il recente accordo di rappresentanza – solo per citare alcuni esempi – vanno esattamente in questa direzione. Il tutto giustificato in maniera ideologica con la presunta insostenibilità del debito pubblico, che di certo non è esploso per favorire chi adesso sta subendo gli effetti più devastanti di questa crisi, e la necessità di “tranquillizzare” i mercati, che altro non sono che i capitali trasnazionali in cerca di valorizzazione.
Gli effetti silenziosi di una situazione così drammatica sono stati la ricerca di un lavoro all’estero o il ricorso ai risparmi familiari per sopravvivere.
Negli scorsi anni, nonostante il disagio e la rabbia sociale siano palpabili, non abbiamo assistito nei settori lavorativi a grandi mobilitazioni sia perché, e ci si scuserà la semplificazione, i sindacati confederali fanno ormai a tutti gli effetti da “tappo”, utilizzando ogni arma per bloccare le spinte dal basso che ogni tanto si producono, sia perché le situazioni di tensione che si sono create sono dipese quasi sempre dalla chiusura delle attività, sono partite cioè quando il potere collettivo dei lavoratori era già stato messo in discussione dalla loro espulsione dal ciclo produttivo. I momenti di piazza, anche importanti numericamente e radicali sul piano del conflitto, sono stati “esplosioni” di rabbia significative sul piano sociale, ma che hanno lasciato poco o niente sul piano politico.
A questi fallimenti, a questo immobilismo, spesso si è risposto rinunciando, o ripiegando su altre lotte – apparentemente più facili da vincere – mentre il nodo gordiano è sempre lì ad attenderci, quello del conflitto tra capitale e lavoro. Ma di cosa parliamo quando evochiamo questo conflitto, di cosa si tratta in fin dei conti? Parliamo dell’incompatibilità radicale (che viene mistificata in ogni modo) tra chi produce e chi beneficia della fatica altrui, tra chi è disoccupato e chi lo mantiene in stand by per poterlo meglio ricattare, tra chi aspira ad entrare nel mercato del lavoro e costruirsi un futuro e chi sceglie di tenerlo fuori in modo da far lavorare – e dunque pagare – meno persone, ma sfruttandole più intensamente e per più ore.
Da una parte ci siamo noi, dall’altra ci sono loro.
E se loro provano a confonderci con divisioni e contrapposizioni che non ci riguardano (la “troika” contro i P.I.G.S, i padri contro i figli, quelli che lavorano a tempo indeterminato – i “privilegiati” – contro i precari o quelli che lavorano contro quelli che sono disoccupati) allora il nostro primo compito è tracciare di nuovo, in maniera chiara e netta, la linea che concretamente ci separa.
La crisi economica ci offre tanti frutti avvelenati, ma è anche un’occasione per segnare questo confine, per individuare un punto di partenza dal quale ricominciare a combattere per i nostri diritti, per aprire nuovi spazi, organizzarsi e far ripartire un ciclo di lotte come è accaduto e sta accadendo in tanti Paesi nel mondo, in Turchia, in Nord Africa, in Brasile, in Messico. Queste lotte – alle quali siamo materialmente, concretamente connessi e non certo solo ideologicamente o “sentimentalmente” vicini, in quanto dal loro esito dipendono anche le nostre possibilità e prospettive – dimostrano che, a livello globale, esistono ancora le condizioni per sottrarre a chi ci sfrutta parte del suo potere, per contrastarlo, per provare a ribaltare la situazione. Queste lotte ci dicono che la linea di separazione di cui parlavamo non divide il mondo tra Nord e Sud o tra Est e Ovest e che siamo dalla stessa parte della barricata nella battaglia per riprenderci il lavoro, la giustizia sociale, il futuro.
Mica facile, ma dobbiamo provarci. Il 19 ottobre non cambierà il mondo, non assalteremo “il palazzo d’inverno”, ma da qualche parte bisogna cominciare.