L’Expo e l’Internazionale senza nome - il testo segue il nostro commento.
Il punto di vista sostenuto dal commento dell'autonomia diffusa dice alcune cose giuste ed altre meno giuste.
Vero è che l'Expo è un avvenimento mondiale che espone lo stato del mondo dal punto di vista del capitalismo; meno vero è che ci riesca per davvero sia nella realtà che nell'immaginario collettivo.
Vero che è dal punto di vista di questo stato del mondo che va contestato; meno vero che sia così centrale questa contestazione.
Chi scrive si illude su questo quando dice “tutto quello che accade attorno al suo evento ha dunque buone possibilità di raggiungere un identico piano di visibilità e consistenza”; chi scrive prende per buono ciò che il capitale dice di sé stesso e si confronta sul suo terreno che non è il migliore dei terreni possibili per “l'altro mondo”.
Vero che è dal punto di vista di questo stato del mondo che va contestato; meno vero che sia così centrale questa contestazione.
Chi scrive si illude su questo quando dice “tutto quello che accade attorno al suo evento ha dunque buone possibilità di raggiungere un identico piano di visibilità e consistenza”; chi scrive prende per buono ciò che il capitale dice di sé stesso e si confronta sul suo terreno che non è il migliore dei terreni possibili per “l'altro mondo”.
Si ricorda, simpaticamente, come due secoli fa nei paraggi di Londra si tenne a battesimo la costituzione della I Internazionale, ma altrettanto simpaticamente occorre dire che essa era tutt'altro che una Internazionale senza nome, aveva nomi e cognomi piuttosto pesanti e raccoglieva effettivamente chi rappresentava il punto di vista altro, anzi, lo lanciava per il presente e soprattutto per il futuro, quel futuro in cui siamo tuttora immersi.
Gli autori dello scritto dicono che è facile dissociarsi da una manifestazione, ma diciamo che è altrettanto facile prendersi dei bersagli comodi nella polemica: il flic giornalista de Il Manifesto e settori squalificati dell'opposizione all'Expo.
La verità è che a Milano nessuno della maggioranza di coloro che hanno partecipato alla
manifestazione si è dissociato. Invece è una chiara dissociazione dal movimento quella di definire la manifestazione “una pacifica marcetta di protesta per i diritti e la democrazia” che sarebbe stata illuminata e valorizzata esclusivamente dalle azioni.
Chi scrive sembra troppo interessato, per i nostro gusti, a ciò che i giornali e Tv dedicano alla manifestazione che a quello che realmente essa è stata. Non è vero che tutti ragionano come chi scrive e che tutti sarebbero dei cercatori di visibilità mediatica ad ogni costo e che per questo si lamenterebbero; è una descrizione del movimento di comodo, facile facile e obiettivamente gratuita e innocua.
Questi compagni ci dicono che a Milano ciò che sarebbe avvenuto è una rivolta; ma a testimonianza cosa apportano? La similitudine con altre rivolte in corso nel mondo. Non, quindi, i fatti di Milano ma quelli delle altre rivolte, ma non basta avere le stesse pratiche per dire che si tratta delle stesse rivolte.
Su un altro punto invece chi scrive ha ragione. Quando rivendicano che si tratta di una strategia politica, niente affatto poco comprensibile ma comprensibilissima. Ma è ambizioso pensare che basti l'incarnazione di questa strategia politica per riaprire la questione della rivoluzione.
E' vero che sono le lotte, i conflitti, le “insurrezioni” che producono il popolo delle lotte, del conflitto e delle insurrezioni; ma non è vero che ogni conflitto, ogni lotta, ogni pratica produce il popolo che può far vincere le insurrezioni - all'interno della nostra visione che il popolo e solo il popolo è la forza motrice della storia.
Ha ragione chi scrive quando descrive il combattimento di Milano nel suo lato buono. In effetti le lezioni vanno imparate, ma il punto di vista nostro è che è il movimento di lotta il soggetto che deve imparare, perchè altrimenti siamo alla rappresentazione e conduzione permanente sempre e solo della stessa battaglia che, e anche chi scrive dovrebbe tenerne conto, finora non ha cambiato lo scenario del conflitto.
E' del tutto evidente che non condividiamo quando si scrive: “non esiste un soggetto sociale di riferimento della rivolta... che il punto è schierarsi e prendere posizione sulle pratiche”. Crediamo che non solo noi ma tutti coloro che vogliono combattere il capitalismo sanno bene che senza soggetto sociale di riferimento non si va da nessuna parte e si riduce lo scontro a uno scontro tra Stato e 'rivoltosi' in cui le masse e lo stesso “soggetto” non avrebbero altro da fare che tifare e schierarsi.
Alla fine chi scrive nel presentare le due alternative non sa vedere che o Siryza/Podemos o l'altro movimento rivoluzionario 'visibile' - cioè rappresentato dalle 'pratiche' di Milano.
Noi non pensiamo che le cose stanno così, e pensiamo che questa sì è una rappresentazione, ma più che di due ipotesi politiche tra due 'ceti politici.'
'La battaglia è appena cominciata' conclude il testo
è vero,, è una sfida da raccogliere però.
è vero,, è una sfida da raccogliere però.
Il carattere distruttivo conosce solo una parola d’ordine: creare spazio […] L’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso.
Walter Benjamin
L’Esposizione Universale, come dice la parola stessa, ha una vocazione globale: espone lo stato del mondo dal punto di vista del capitalismo. Tutto quello che accade attorno al suo evento ha dunque buone possibilità di raggiungere un identico piano di visibilità e di consistenza. Circa due secoli fa, a Londra, nei suoi paraggi si tenne a battesimo la costituzione della Prima Internazionale, tanto per dire. Un movimento che ha ambizione di essere all’altezza del suo tempo è obbligato in questo senso a confrontarsi con quello che è lo stato del mondo dal punto di vista della rivolta e a esporne a sua volta la consistenza.
Il flic-giornalista del Manifesto a un certo punto se ne rende conto, che la rivolta milanese risuona con una certa prassi comune a tutti gli appuntamenti significativi che negli ultimi tempi hanno attraversato l’Europa, e cerca disperatamente di dissociarsene invitando tutte “le realtà di movimento” a fare altrettanto.
Ma la verità è che se è facile e comodo dissociarsi da una manifestazione è molto più difficile farlo con la realtà; anche da qui viene tutto l’isterismo che scorre a fiotti sui giornali e sui social media e che sospettiamo frantumi la serenità di molte collettività politiche in questi giorni. Fortunatamente vi sono altrettanti compagni e compagne che invece di rimuovere il reale cercano di starci dentro o come minimo di ragionarci su.
Per anni, guardando a quello che accadeva in altri paesi d’Europa e del mondo, molti di quelli che oggi si indignano chiedevano con sconforto come mai in Italia non scoppiasse una rivolta contro la bulimia del potere capitalistico. Adesso che è arrivata sperano che la polizia e la magistratura, corroborata da fantasmatici servizi d’ordine, la faccia scomparire al più presto. Esponendo così la tradizionale vigliaccheria delatoria della sinistra nostrana.
È una banalità oggi dire che qualsiasi gesto politico è obbligato a confrontarsi con lo Spettacolo, meno scontato è assumerlo come uno dei piani del conflitto, come uno dei suoi terreni più aspri. Ogni rivolta contemporanea deve simultaneamente agire su più livelli di percezione, deve creare le proprie immagini e destituire quelle nemiche. Con ragione Bifo scrive che se non fosse stato per l’azione dei “teppisti” l’infosfera sarebbe stata saturata dalle immagini trionfaliste del governo e dei suoi lacchè, e per questo gli è grato. O qualcuno pensa davvero che televisioni e giornali avrebbero dedicato più di un trafiletto a una pacifica marcetta di protesta per i diritti e la democrazia?
A noi pare in ogni caso che coloro che nel movimento si lamentano e magari accusano i “teppisti” di cercare la visibilità mediatica a ogni costo lo facciano perchè speravano di averla loro. A costoro non possiamo che suggerire che anche le immagini si “conquistano a spinta”.
La rivolta milanese si iscrive in una costellazione che per quanto riguarda l’Europa ha cominciato a formarsi immediatamente dopo il riflusso del movimento delle Acampades. Una volta terminata la storia degli Indignados e delle piazze occupate in molti hanno scelto di organizzarsi nei quartieri delle metropoli, di creare delle nuove basi per vivere e lottare, cercando di far esistere materialmente quel “comune” di cui tanto si è parlato negli ultimi anni. Ci si è cominciato a difendere. La rivolta di Gamonal contro la gentrificazione, poi la resistenza a Barcellona contro lo sgombero di Can Vies, l’ondata di émeutes all’indomani dell’assassinio di Rémi Fraisse in Francia, ucciso dalla polizia mentre con altri difendeva dei terreni contro le solite Grandi Opere, l’organizzazione in molte città italiane di reti di mutuo soccorso contro gli sfratti. Poi si è passato al contrattacco. La freccia distruttiva che ha attraversato Francoforte il giorno dell’inaugurazione della BCE e poi Milano per quella dell’Expo fa parte di questo movimento che, ad oggi, è l’unica ipotesi di movimento rivoluzionario in campo. Invitiamo chi, anche in buona fede, non riesce a vedere una “strategia politica” nella sequenza dei riot europei a decentrarsi e a cercare di guardare quello che accade da questo angolo visuale, da questo parziale punto di vista. Crediamo che molte cose gli appariranno più chiare. A differenza di quanto si dice in giro a proposito della “ poca comprensibilità” delle pratiche, presumiamo che a chi la crisi l’ha pagata per davvero il tutto sia stato così tanto comprensibile da non aver bisogno dei sottotitoli. Con tutta evidenza si tratta di un tentativo di ritorcere la crisi contro se stessa, di iniziare a far pagare caro coloro che negli scorsi anni si sono organizzati per devastare le vite di milioni di persone. Di impedire che i festeggiamenti di governi e padroni suggellassero il compimento della loro missione e di riaprire la questione. E la questione da riaprire è quella rivoluzionaria. Sono le lotte, i conflitti, le insurrezioni che producono il “popolo che manca”e non il contrario.
Probabilmente bisogna rovesciare il punto di vista anche rispetto alle dinamiche di ciò che è avvenuto a Milano e smetterla di pensare solamente a come è stato organizzato il dispositivo dell’ordine pubblico. La rivolta ha cercato e praticato i suoi obiettivi tra i quali, certamente, vi era la ridefinizione dell’arredo urbano ma anche quello di tenere a distanza la polizia e si è organizzata conseguentemente. Chiunque guardi con un po’ di attenzione le decine di video in circolazione può rendersi facilmente conto della tattica rigorosamente asimmetrica praticata dai rivoltosi. E crediamo che molti acconsentiranno che seppure le auto incendiate non sono dei grandi obiettivi da praticare sono preferibili alle decine di teste spaccate che avrebbe provocato un impatto frontale. Che un uso determinato della forza riesca ad evitare il massacro d’altra parte è una vecchia regola ben conosciuta dai movimenti autonomi del passato.
La rivolta, quando arriva, mette in crisi il legame sociale, quello che lo Stato vieta di sciogliere, e porta le identità politiche e sociali a un punto di indistinzione. Non esiste un “soggetto sociale di riferimento” della rivolta e tutti, volenti o nolenti, vengono interpellati dall’interruzione che essa imprime nel tempo e nello spazio: le “pratiche” sono un invito rivolto a chiunque a prendere posizione.
Ora a noi pare che allo stato attuale delle cose in Europa vi siano solamente due possibilità a questo proposito. O si pensa che bisogna puntare al governo, è l’ipotesi Podemos/Syriza, oppure che valga la pena tentare una diversa “verticalizzazione” delle lotte, cioè organizzarle in un movimento rivoluzionario. Le due possibilità non sono compatibili e a ben guardare nemmeno alternative tra loro: sono nemiche. Per questo, ancora una volta, l’ostacolo più ingombrante che i rivoluzionari si trovano davanti è il ceto politico della sinistra dentro e fuori del movimento. Per il momento molti tacciano, chi per imbarazzo chi per calcolo.
La battaglia è appena cominciata.
Per l’autonomia diffusa mondiale
lettera da lontano... Sulle 15 tesi partigiane sul Primo Maggio Milanese
Contributo di Autonomia Diffusa al dibattito sulla giornata del 1 Maggio No Expo a Milano - il testo segue il nostro commento
L'autonomia diffusa con le 15 tesi solleva buona parte dei problemi reali della manifestazione di Milano, ma non tutti a dir la verità. Comunque con le sue tesi pone sul piatto questioni che effettivamente vanno discusse.
“Vorrei evidenziare che le proteste pacifiche sono un lusso che appartiene a chi è già inserito nella cultura dominante, a chi è sicuro che la propria voce verrà ascoltata senza violenza, a chi può permettersi di aspettare che arrivi il cambiamento che vuole ”
“Ferguson: in defense of rioting”, Time Magazine, 24 novembre 2014
1. “I Black Bloc devastano Milano”. Ecco in sostanza la lettura dei media mainstreamdella giornata del Primo Maggio 2015. Noi abbiamo visto molte cose in quella giornata ma la devastazione, la vera devastazione, la vediamo tutti gli altri giorni: ogni giorno in cui non accade nulla, ogni giorno in cui si muore annegati nel Mediterraneo, sui posti di lavoro, nelle guerre dell’Occidente o da soli, per disperazione.
2. La settimana è cominciata con una grande operazione preventiva da parte della polizia. I quartieri Giambellino, Porta Genova e Prealpi sono stati messi sotto assedio. Tredici perquisizioni, otto case sgomberate, la Base di solidarietà popolare in Giambellino sgomberata e distrutta, decine di compagni portati in questura, due arresti e interi quartieri militarizzati. Questo è il bilancio della strategia della questura che voleva tenere impegnati tanti compagni, logorarli per distrarli dalla giornata del primo maggio. Molti dei fermati durante le perquisizioni erano di origine straniera e per questo sono stati trattenuti per ore in questura all’ufficio immigrazione. Questi compagni sono venuti per partecipare alle cinque giornate di Milano, per conoscere le lotte italiane e condividere le esperienze di lotta che attraversano in giro per l’Europa. La stampa ha approfittato di questi fermi, per la maggior parte conclusasi in liberazioni senza procedimenti penali, per costruire il mostro che poteva terrorizzare preventivamente i partecipanti al corteo e il capro espiatorio da servire in pasto all’opinione pubblica.
3. Questo Primo Maggio milanese è stato una giornata scomoda. È scomoda per i rivoluzionari perché il dato centrale – quello della partecipazione, della determinazione, dell’organizzazione, dell’esistenza di una forza rivoluzionaria capace di mettere in atto il proprio rifiuto del divieto di prendersi il centro – viene messo in secondo piano dalla narrazione maggioritaria. È scomoda anche per quelli che alimentano un immaginario conflittuale, purché rimanga su un piano puramente virtuale, per riproporre sempre la stessa formula scadente: un governo un po’ più a sinistra, uno sfruttamento garantito, un capitalismo sostenibile. Almeno ci vediamo più chiaro: voler essere i buoni rappresentanti di tutti quelli che non hanno e non vogliono rappresentanza o stare in maniera partigiana dalla parte dei rivoltosi non sono due posizioni compatibili.
4. La sfida che hanno davanti tutte le lotte, a cominciare da quella per l’abitare, è quella di coniugare due aspetti: partecipazione e conflitto. Man mano che le lotte crescono si prova a mettere insieme, anche in piazza, quelle due dimensioni. Se uno dei due elementi viene a mancare, si rischia di cadere nell’auto rappresentazione di una minoranza attiva incapace di determinare alcun cambiamento di rotta. La partecipazione è stata numerosa ed eterogenea, nonostante il clima di terrore creato nei giorni precedenti. Lo spezzone delle lotte sociali è stato tra i più nutriti del corteo. C’erano i comitati e gli occupanti di quartiere, che portano avanti ogni giorno una lotta reale lontano dai riflettori e dal centro della metropoli. Una lotta per l’abitare, che parte dall’avere un tetto sopra la testa per arrivare alla costruzione di quartieri più vivibili. C’erano anche tanti giovani precari e disoccupati che nel modello Expo non si riconoscono e non vogliono regalare il proprio tempo agli schiavisti del grande evento e hanno preferito scendere in piazza a manifestare la propria opposizione, la propria rabbia. Tante lotte diverse e tanti gesti hanno convissuto rendendo la giornata intensa: c’è chi ha fatto cori e chi ha resistito alle cariche, chi ha ballato il tango e chi la techno, chi ha raccontato la propria lotta a tutta la città e chi ha scritto sui muri con il volto coperto. Un obiettivo è stato sicuramente raggiunto ed era forse quello più importante: da un anno a questa parte la parola d’ordine che ha più risuonato nelle assemblee No Expo era “facciamo male a Expo”. Gli è stato fatto male.
5. Certi gesti sono stati inutili o addirittura sfavorevoli in quel contesto, in quel momento preciso? Crediamo che un gesto sia rivoluzionario non per il suo contenuto, ma per il concatenamento di effetti che genera. I moralisti che elogiano o condannano delle “pratiche” a prescindere, senza mai tenere conto del contesto in cui vengono messe in atto condividono una stessa cecità. Una macchina messa in mezzo alla strada per impedire alla polizia di avanzare e massacrare il corteo non sarà mai la stessa cosa di una macchina sfasciata in mezzo ai manifestanti quando l’urgenza è quella di difendersi tutti insieme. Certi gesti, indirizzati verso obiettivi scelti a caso, rischiano di dimostrare per lo più frustrazione e mancanza di prospettiva, non mettono un granché sul tavolo dell’avanzamento rivoluzionario. Le migliori azioni sono quelle che non hanno bisogno di troppe spiegazioni per essere comprese da tutti, amici come nemici. L’assedio al cantiere di Chiomonte parlava chiaro, come sarebbe stato chiaro se qualcuno il Primo Maggio se la fosse presa con la sede di Expo o, perché no, con la Borsa.
6. Finché non comprendiamo che il potere va minato nella sua materialità come nel suo discorso, il nostro agire rimarrà parziale, e quindi debole. Sabotare il capitalismo significa sì praticare degli obiettivi ma anche saper neutralizzare gli effetti negativi della narrazione mediatica del giorno dopo. Pensare questa neutralizzazione d’anticipo deve essere parte dell’azione stessa. E questa, diciamolo con umiltà, è stata la mancanza più grande della giornata del Primo Maggio. Da questo punto di vista la strada da percorrere è ancora tanta. Quando il conflitto si manifesta, pensare di gestirlo integralmente, governarlo, pascolarlo è contemporaneamente ingenuo e sintomo di delirio di onnipotenza. D’altronde è compito di tutti sviluppare un’intelligenza strategica collettiva rispetto al sentimento generale con cui una determinata azione viene accolta. Il discorso non è, come si potrebbe erroneamente pensare, pretendere di indicare cosa è giusto e cosa è sbagliato in assoluto. Il discorso verte piuttosto su una questione di immaginario. Occorre quindi alimentare giorno per giorno un immaginario “altro” che sia desiderabile e reale, capace quindi di avere qualcosa di meglio da proporre rispetto al sogno di un’automobile di lusso. Su questo, purtroppo, il movimento rivoluzionario è ancora troppo carente.
7. Centrare l’analisi della giornata su alcuni gesti tutto sommato secondari rischia di far perdere di vista il fatto che l’obiettivo che si sono dati tanti manifestanti è stato in parte raggiunto: la zona rossa è stata rifiutata con chiarezza. Per chi c’è stato, per chi ha un minimo di onestà intellettuale, la situazione era chiara: non c’è mai stato unicamente un blocco nero che spaccava tutto a caso ma un concatenamento eterogeneo di persone che ha voluto dirigersi verso l’obiettivo iniziale della manifestazione, il centro di Milano. Erano molti di più di qualche centinaio di cui parla la stampa. Sarà mai che dietro quelle sciarpe nere c’era qualche occupante di casa, qualche precaria, o qualche studente incazzato?
8. Degli errori sono stati commessi, come ne commettono sempre i rivoluzionari mentre tentano di aprire o di cogliere delle possibilità di conflitto. Chi non ci prova mai, chi auto-riproduce sempre sé stesso e non si rimette mai in questione, chi, anche in buona fede, aspetta da sempre che arrivino le giuste “condizioni oggettive” di certo non rischia di sbagliare. Rischiare però non significa mettere in pericolo anche chi non è disposto a mettersi in gioco in prima persona e crediamo che i manifestanti organizzati per l’autodifesa del corteo l’abbiano dimostrato. Forse anche questo aspetto non è stato notato da chi aveva già deciso di accettare di fatto al divieto della questura e di stare il più lontano possibile da ogni forma di conflitto. E’ d’altronde ingenuo credere che dopo sette anni di silenzio mediatico nonostante gli innumerevoli scandali di Expo, bastasse sfilare pacificamente per convincere i media che i No Expo hanno ragione.
9. Riprendere la strada della lotta quotidiana, contro l’Expo, nei quartieri, per l’abitare, non sarà di certo facile e la repressione proverà ad ostacolarci ancora di più. Ma facciamoci una domanda, senza polemica, una domanda onesta: se non ci fosse stata quella prova di conflitto, con che faccia si poteva tornare in quelle lotte, dopo aver proclamato in mille modi che l’inaugurazione di Expo andava ostacolata, scioperata, sgomberata? Allora parliamoci chiaro: vogliamo la rivolta ma senza i rivoltosi, con i loro pregi e i loro difetti? Vogliamo manifestare ma solo quando e dove ce lo dice la polizia? Vogliamo la MayDay internazionale ma solo con ordinate delegazioni di rappresentanza? Vogliamo i Greci ma solo di Syriza? Vogliamo la rivoluzione gentile, senza problemi, senza repressione? Vogliamo il conflitto ma solo a parole? Ricoprire le pareti dei nostri posti, i nostri manifesti, i nostri vestiti di bandiere rosse, nere, curde, di immagini di rivolta e di barricate, riempirci la bocca di slogan altisonanti e mai dare un contributo, anche rischiando di sbagliare, per fare in modo che quell’immaginario si riversi nelle strade?
10. E se non fosse successo nulla? E se fosse stata una manifestazione come le decine a cui giustamente partecipiamo il resto dell’anno? È da questa domanda che dovremo partire per riuscire ad affrontare con sincerità la complessità della giornata del Primo Maggio. Non era una semplice Mayday e chi lo pensa è lontano dalla realtà. L’inaugurazione di Expo segnava un momento importante per chi lotta ogni giorno, per chi non è più disposto a subire. Non era una data come le altre perché il capitalismo italiano si metteva in mostra e festeggiava l’inizio di una nuova fase di devastazione e speculazione. Il consenso non si guadagna solo con l’enunciazione di buoni propositi, ma anche con il coraggio e con la capacità di forzare anche i nostri meccanismi di autoconservazione. Più che il consenso virtuale ci dovrebbe interessare la possibilità di sviluppare degli incontri che possano creare dei legami veri. In questo osare si può anche sbagliare, e ne siamo consapevoli, le cose non sono andate perfettamente come avremmo voluto, ma meglio trovarsi a discutere su cosa non è andato, su come possiamo migliorare la prossima volta, che dover vivere col rimorso o peggio ancora autocelebrare la propria “integrità politica”. A chi invece sputa sulla costruzione politica che componeva uno degli spezzoni variegati del corteo, diciamo che le situazioni non sono solo da godere a proprio piacimento, ma anche da costruire.
11. Mentre c’era in corso la MayDay a Milano i rivoltosi di Baltimora spaccavano vetrine di banche tra le urla festanti della gente e i compagni di Istanbul attaccavano la zona rossa e resistevano alla polizia. Ma si sa, il Black Bloc a distanza è sempre più bello e la zona rossa del vicino è sempre più rossa. Siamo consapevoli della differenza del contesto sociale e della composizione delle piazze in cui questi riotavvengono. Ma non c’è bisogno di andare lontano ed evocare questi esempi, o Kobane o Ferguson, per evidenziare il conservatorismo di alcuni politicanti di movimento: basta tornare a novembre 2014 e ricordare che mentre i quartieri popolari di Milano erano in rivolta qualcuno preferiva tenersi stretto le proprie “conquiste”, senza cercare di contaminarsi o di incuriosirsi. Le rivolte si parlano, si rispondono più velocemente che sui social network, hanno la capacità di cogliere il momento e hanno qualcosa da dire sul mondo, molto di più dei grigi comunicati che escono da assemblee di addetti ai lavori senza passione, senza amore, senza gioia. Le tristi beghe egemoniche e gestionali, la contabilità tra le parrocchie di movimento fa dimenticare a molti che fuori c’è un mondo a cui non frega niente di queste piccolezze.
12. Ancora una volta il gioco della divisione tra pacifico e violento è opera sia di chi governa sia di quella parte di sinistra che crede che per farsi sentire basti ridurre la questione del conflitto a un discorso morale. Non si tratta di fare l’elogio dello scontro minimizzando le infinite altre pratiche che creano avanzamento, anzi crediamo che stia proprio qui la chiave per uscire dalla falsa opposizione tra pacifico e violento. Le pratiche di lotta, siano queste una marcia popolare, delle azioni fuori dalla legalità o dei sabotaggi devono essere valutate da un punto vista strategico e non da un principio ideologico. Gli obiettivi politici non si misurano con eventuali arresti o attacchi da parte del nemico, ma con ciò che la pratica di questi obiettivi possa creare a livello di avanzamento a medio e a lungo termine. E sappiamo bene che saremo sotto attacco anche da chi crede di avere in tasca l’abc della politica, ma sarebbe meglio che costoro guardassero fuori della finestra del proprio centro sociale perché c’è un mondo al di là della propria pratica militante formato famiglia. Per noi ciò che conta è l’avanzare delle lotte e per questo rischiamo e ci organizziamo.
13. Quello che sta accadendo in questi ultimi giorni a Milano è l’emblema dell’ipocrisia della borghesia milanese che si indigna e prende posizione contro i danni del corteo, perché difende la propria città e crede ingiusto che sia “devastata”, ma tace davanti a decenni di sventramento della città, alla distruzione di parchi e alberi per fare spazio al cemento, alla gentrification di intere zone. Così come non dice mai niente della violenza con cui nei quartieri popolari delle famiglie vengono buttate in mezzo a una strada, della speculazione edilizia che arricchisce sempre di più la mafia del mattone, del lavoro gratuito per i giovani precari che vogliono costruirsi un futuro. L’operazione #NessunoTocchiMilano ci sembra un automatismo del cittadino che per lavarsi la coscienza scende in piazza, così come adotta un figlio a distanza per sentirsi solidale. I riflettori a un certo punto si spegneranno e i muri torneranno ad essere imbrattati non solo dai No Expo ma anche dai tantissimi ragazzi e ragazze che scrivono la propria storia, lasciando il segno del proprio passaggio sui muri.
14. Saranno tempi difficili, su questo non ci sono dubbi, ma crediamo che questa scommessa andava fatta e che i risultati politici li vedremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Non accettiamo il ricatto per cui si dice che da ora gli spazi di agibilità saranno ristretti e quindi era meglio non fare niente. Forse la gestione dell’ordine pubblico a Milano cambierà e lascerà meno margini, ma la pacificazione a cui ci avevano abituato e su cui faceva leva la questura andava superata. Non è con la convivenza pacifica ma è solo con la lotta che riusciremo a strappare l’agibilità politica che la controparte ci vorrà togliere nei prossimi tempi. Sui territori raccoglieremo la forza o la debolezza delle nostre scelte, la sfida ora è quella di allargare, di conoscere nuovi amici, di tessere nuove relazioni, di scoprire nuove lotte. Ci sono vari compagni e compagne arrestati: a loro va la nostra intera e sincera solidarietà. Strano e assurdo pensare che i devastatori dei nostri territori vogliano riutilizzare l’accusa di devastazione e saccheggio come vendetta contro chi individueranno come colpevoli di aver rovinato la festa ad Expo. Si parla di un reato che prevede una pena che arriva a 15 anni. E su questo c’è da riflettere sopratutto quando ci si abbandona facilmente a condanne: non possiamo lasciare soli i compagni arrestati o che lo saranno in futuro, che facciano parte della nostra collettività o meno. Crediamo sia giusto lanciare da subito un appello a sostenere questi compagni e ad attivarsi ognuno nelle proprie città per rompere l’isolamento che cercheranno di creare loro intorno.
15. Le giornate come questa forse hanno tanti difetti però sicuramente un pregio ce l’hanno: quello di segnare uno spartiacque tra chi lotta misurandosi con la realtà per tentare di cambiarla e chi condanna, si indigna o pretende di dare lezioni. In questi giorni abbiamo visto un’istantanea di due mondi inevitabilmente inconciliabili: la società per bene, che abita le vie ricche del centro e insieme a Lega e PD cancella la scritta “Carlo vive” da una parte, e le migliaia di “Carlo” senza nome e col cappuccio che hanno resistito nelle strade. Lasciamo ad altri la posizione altezzosa di chi si permette di giudicare da lontano quale riot sia giusto e quale è sbagliato e scegliamo di stare ancora una volta in mezzo alla mischia, in mezzo alle contraddizioni, dove sta il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.
Sempre per l’autonomia diffusa
Milano, 4 maggio 2015
L'autonomia diffusa con le 15 tesi solleva buona parte dei problemi reali della manifestazione di Milano, ma non tutti a dir la verità. Comunque con le sue tesi pone sul piatto questioni che effettivamente vanno discusse.
Nelle prime tre tesi racconta lo scenario denunciando quello che la borghesia e i suoi media, il suo Stato hanno messo in campo.
Nella quarta tesi però il ragionamento diventa troppo semplice. La sfida sarebbe di coniugare due aspetti: partecipazione e conflitto, ma vengono coniugati come se fossero due mondi e due fasi separate. La grande maggioranza di chi stava alla manifestazione non faceva parte di questa descrizione, ma partecipava per esercitare il conflitto e la partecipazione è stata conseguente alle forze sociali, politiche che questo conflitto lo conducono prima del 1° Maggio, lo riportavano dentro il 1° Maggio e certamente intendono proseguirlo dopo il 1° Maggio.
Quindi, siamo e non siamo d'accordo con la tesi 4. Era intenzione di tutti di “far male all'Expo”;
siamo meno convinti che si sia realmente riusciti. Ma nessuno aveva delegato qualcun altro a riuscirci.
Nella tesi 5 si dice che: “un gesto sia rivoluzionario non per il suo contenuto ma per il concatenamento di effetti che genera”. La pensiamo diversamente. Un gesto è rivoluzionario se inserito in una prassi che ha obiettivo non di produrre concatenamento ma avanzamento in coscienza e forza materiale del processo rivoluzionario. E' inutile qui rivendicare la giustezza delle pratiche, potremmo essere d'accordo su questo, ma chi ha deciso che il movimento non voleva e non era capace di produrre il livello di conflitto necessario? C'è chi ha escluso preventivamente e programmaticamente che il movimento fosse effettivo protagonista del combattimento. Conosciamo già questa logica, per cui: prima non si fa una battaglia effettiva nel movimento perchè esso adotti collettivamente la prassi necessaria, poi si organizza da sé questa prassi in maniera tale che il movimento obiettivamente non vi possa partecipare, infine si attacca da questo pulpito il movimento per non aver partecipato.
Lasciamo stare poi l'assedio di Chiomonte... che è come vedere il fatto in sé e non la “guerra di popolo” che il popolo di Val Susa sta conducendo.
Nella 6 tesi si dice che “il potere va minato nella sua materialità”. E quale sarebbe la sua materialità? Macchine, vetrine, e sbirri a sua difesa? E, secondo chi scrive, le lotte della logostica, del movimento Notav, dei movimenti non minano questa materialità? Non sarà troppo “materiale” questo discorso...? Non sarà una rappresentazione del potere un po' troppo caricaturale che fa un po' a pugni con analisi del potere un pochino più profonde che vengono anche da questa parte? Non è vero che questo è sabotare il capitalismo, per favore! Attaccare in una manifestazione l'Expo, come in altre altri simboli materiali è necessità di ogni conflitto, ma definire ciò “sabotare il capitalismo” non è vero.
Dopo di che, sempre nella tesi 6, si dicono cose sensate ma tutte orientate dallo stesso concetto, che l'immaginario è tutto e il reale è a seguire. No, cari compagni, non è su questo che il movimento rivoluzionario è ancora troppo carente.
La tesi 7 afferma giustamente che dietro quelle sciarpe nere (non è vero che sotto il vestito niente) c'era qualche occupante di case, qualche precario, qualche studente incazzato. Ma qualcuno è in grado di spiegare a questi compagni che per lottare per la casa, contro la precarietà, contro la scuola un "qualche" è troppo poco? E che o ci sono i soggetti collettivi incazzati o questa lotta non è data? E che comunque “incazzato” non è mai bastato, altrimenti è da tempo che le città sarebbero bruciate e non “riottizzate”.
Nella tesi 8 si accenna ad errori. Condividiamo totalmente che sono l'aspetto secondario della vicenda. Quello che invece non condividiamo è la descrizione caricaturale del movimento NoExpo che traspare da frasi, quali: “è ingenuo credere che dopo 7 anni di silenzio mediatico, nonostante gli innumerevoli scandali di Expo bastasse sfilare pacificamente per convincere i media che i NoExpo hanno ragione” – non c'è nessuno dei 30mila che pensa questo. E il guaio è casomai che c'è chi pensa che il movimento pensa questo, e quindi lo dà per perso e di conseguenza è da eccitare con gesti.
Nella tesi 9 i compagni indicano di riprendere la lotta quotidiana in condizioni non facili e con la repressione che sarà intensificata.
Tutto il movimento ha chiarezza di questo e tutto è impegnato ad attrezzarsi per affrontare questo. La grande maggioranza, comunque, non pensa affatto che questa situazione è resa difficile perchè il 1° Maggio ci sono stati gli scontri.
A difesa dell'Expo c'è una guerra dichiarata e ostentata dello Stato e del capitale che già era ed è predisposta per contrastare il movimento con tutti i mezzi, e, quindi, 1 maggioMilano o non 1àmaggioMilano, con questo tutti facciamo i conti.
Ma per favore non usiamo l'argomento che qualcuno “vuole la rivolta senza i rivoltosi”. Il problema è che nessuno ha delegato ad alcuni rivoltosi la rivolta e nessuno vuole la “rivolta a numero chiuso”, e nessuno pensa che una rivolta sia la “simbologia della rivolta”, invece che la rivolta popolare, proletaria, giovanile che possa davvero far male all'Expo e al sistema che la produce.
Ma per favore non usiamo l'argomento che qualcuno “vuole la rivolta senza i rivoltosi”. Il problema è che nessuno ha delegato ad alcuni rivoltosi la rivolta e nessuno vuole la “rivolta a numero chiuso”, e nessuno pensa che una rivolta sia la “simbologia della rivolta”, invece che la rivolta popolare, proletaria, giovanile che possa davvero far male all'Expo e al sistema che la produce.
Il resto è una polemica facile facile contro un bersaglio immobile e non contro il bersaglio mobile del movimento reale.
Nella tesi 10 si dice “e se non fosse successo nulla?” E se, noi diciamo, fosse successo altro? E se la manifestazione impostata e pianificata come 'No Expo – No Renzi – No imperialismo' avesse considerato il 1° Maggio per così dire una “tappa di presentazione”, per dar vita a un conflitto prolungato in cui l'elemento della esplosione delle lotte fosse il centro e la costruzione del conflitto fosse secondo una strategia “dell'accerchiamento della città dalla campagna”, prima di espugnare la città? E se fosse questa la costruzione politica necessaria?
Sulla tesi 11, istintivamente noi quando sentiamo certe cose “metteremmo mano alla pistola”, perchè uno che scrive che “mentre era in corso la Mayday a Milano i rivoltosi di Baltimora spaccavano vetrine di banche tra le urla festanti della gente e i compagni di Istanbul attaccavano la zona rossa e resistevano alla polizia”, è semplicemente qualcuno che vede i video delle rivolte e delle lotte e che evidentemente non si è mai trovato per sbaglio in una rivolta antipolizia e antirazzista come Baltimora o nel movimento prolungato di rivolta contro il regime fascista di Erdogan.
Allora scimmiottare a distanza le rivolte per sentirsi rivoltosi è una forma autoreferenziale di stupidità e arroganza esistenziale.
Ma anche quando si dicono sciocchezze, qualche verità la si dice, quando i compagni alludono a ciò che è avvenuto, non nei quartieri popolari di Milano, ma in un quartiere popolare di Milano in cui una mezza rivolta c'è stata ed effettivamente il movimento milanese nella sua parte maggioritaria invece di adottarla se n'è tenuto a margine. Sollevare questi scheletri nel movimento di Milano è un sacrosanto dibattito che merita una discussione senza esclusione di colpi.
Le ultime 4 tesi ci trovano sostanzialmente d'accordo, pur da punti di vista diversi che abbiamo espresso. Anche noi pensiamo che il movimento avrà l'intelligenza di muoversi nel dopo Milano meglio e con più consapevolezza di come è arrivato al 1° Maggio. E se ci permettiamo di dire la nostra è perchè pensiamo che il dopo il 1° Maggio sia davvero importante non solo per Milano ma per tutto il movimento rivoluzionario,
da Torino a Palermo, da Taranto a Roma.
da Torino a Palermo, da Taranto a Roma.
15 tesi partigiane sul Primo Maggio Milanese
Primo Maggio 2015. “Oggi inizia il domani”“Vorrei evidenziare che le proteste pacifiche sono un lusso che appartiene a chi è già inserito nella cultura dominante, a chi è sicuro che la propria voce verrà ascoltata senza violenza, a chi può permettersi di aspettare che arrivi il cambiamento che vuole ”
“Ferguson: in defense of rioting”, Time Magazine, 24 novembre 2014
1. “I Black Bloc devastano Milano”. Ecco in sostanza la lettura dei media mainstreamdella giornata del Primo Maggio 2015. Noi abbiamo visto molte cose in quella giornata ma la devastazione, la vera devastazione, la vediamo tutti gli altri giorni: ogni giorno in cui non accade nulla, ogni giorno in cui si muore annegati nel Mediterraneo, sui posti di lavoro, nelle guerre dell’Occidente o da soli, per disperazione.
2. La settimana è cominciata con una grande operazione preventiva da parte della polizia. I quartieri Giambellino, Porta Genova e Prealpi sono stati messi sotto assedio. Tredici perquisizioni, otto case sgomberate, la Base di solidarietà popolare in Giambellino sgomberata e distrutta, decine di compagni portati in questura, due arresti e interi quartieri militarizzati. Questo è il bilancio della strategia della questura che voleva tenere impegnati tanti compagni, logorarli per distrarli dalla giornata del primo maggio. Molti dei fermati durante le perquisizioni erano di origine straniera e per questo sono stati trattenuti per ore in questura all’ufficio immigrazione. Questi compagni sono venuti per partecipare alle cinque giornate di Milano, per conoscere le lotte italiane e condividere le esperienze di lotta che attraversano in giro per l’Europa. La stampa ha approfittato di questi fermi, per la maggior parte conclusasi in liberazioni senza procedimenti penali, per costruire il mostro che poteva terrorizzare preventivamente i partecipanti al corteo e il capro espiatorio da servire in pasto all’opinione pubblica.
3. Questo Primo Maggio milanese è stato una giornata scomoda. È scomoda per i rivoluzionari perché il dato centrale – quello della partecipazione, della determinazione, dell’organizzazione, dell’esistenza di una forza rivoluzionaria capace di mettere in atto il proprio rifiuto del divieto di prendersi il centro – viene messo in secondo piano dalla narrazione maggioritaria. È scomoda anche per quelli che alimentano un immaginario conflittuale, purché rimanga su un piano puramente virtuale, per riproporre sempre la stessa formula scadente: un governo un po’ più a sinistra, uno sfruttamento garantito, un capitalismo sostenibile. Almeno ci vediamo più chiaro: voler essere i buoni rappresentanti di tutti quelli che non hanno e non vogliono rappresentanza o stare in maniera partigiana dalla parte dei rivoltosi non sono due posizioni compatibili.
4. La sfida che hanno davanti tutte le lotte, a cominciare da quella per l’abitare, è quella di coniugare due aspetti: partecipazione e conflitto. Man mano che le lotte crescono si prova a mettere insieme, anche in piazza, quelle due dimensioni. Se uno dei due elementi viene a mancare, si rischia di cadere nell’auto rappresentazione di una minoranza attiva incapace di determinare alcun cambiamento di rotta. La partecipazione è stata numerosa ed eterogenea, nonostante il clima di terrore creato nei giorni precedenti. Lo spezzone delle lotte sociali è stato tra i più nutriti del corteo. C’erano i comitati e gli occupanti di quartiere, che portano avanti ogni giorno una lotta reale lontano dai riflettori e dal centro della metropoli. Una lotta per l’abitare, che parte dall’avere un tetto sopra la testa per arrivare alla costruzione di quartieri più vivibili. C’erano anche tanti giovani precari e disoccupati che nel modello Expo non si riconoscono e non vogliono regalare il proprio tempo agli schiavisti del grande evento e hanno preferito scendere in piazza a manifestare la propria opposizione, la propria rabbia. Tante lotte diverse e tanti gesti hanno convissuto rendendo la giornata intensa: c’è chi ha fatto cori e chi ha resistito alle cariche, chi ha ballato il tango e chi la techno, chi ha raccontato la propria lotta a tutta la città e chi ha scritto sui muri con il volto coperto. Un obiettivo è stato sicuramente raggiunto ed era forse quello più importante: da un anno a questa parte la parola d’ordine che ha più risuonato nelle assemblee No Expo era “facciamo male a Expo”. Gli è stato fatto male.
5. Certi gesti sono stati inutili o addirittura sfavorevoli in quel contesto, in quel momento preciso? Crediamo che un gesto sia rivoluzionario non per il suo contenuto, ma per il concatenamento di effetti che genera. I moralisti che elogiano o condannano delle “pratiche” a prescindere, senza mai tenere conto del contesto in cui vengono messe in atto condividono una stessa cecità. Una macchina messa in mezzo alla strada per impedire alla polizia di avanzare e massacrare il corteo non sarà mai la stessa cosa di una macchina sfasciata in mezzo ai manifestanti quando l’urgenza è quella di difendersi tutti insieme. Certi gesti, indirizzati verso obiettivi scelti a caso, rischiano di dimostrare per lo più frustrazione e mancanza di prospettiva, non mettono un granché sul tavolo dell’avanzamento rivoluzionario. Le migliori azioni sono quelle che non hanno bisogno di troppe spiegazioni per essere comprese da tutti, amici come nemici. L’assedio al cantiere di Chiomonte parlava chiaro, come sarebbe stato chiaro se qualcuno il Primo Maggio se la fosse presa con la sede di Expo o, perché no, con la Borsa.
6. Finché non comprendiamo che il potere va minato nella sua materialità come nel suo discorso, il nostro agire rimarrà parziale, e quindi debole. Sabotare il capitalismo significa sì praticare degli obiettivi ma anche saper neutralizzare gli effetti negativi della narrazione mediatica del giorno dopo. Pensare questa neutralizzazione d’anticipo deve essere parte dell’azione stessa. E questa, diciamolo con umiltà, è stata la mancanza più grande della giornata del Primo Maggio. Da questo punto di vista la strada da percorrere è ancora tanta. Quando il conflitto si manifesta, pensare di gestirlo integralmente, governarlo, pascolarlo è contemporaneamente ingenuo e sintomo di delirio di onnipotenza. D’altronde è compito di tutti sviluppare un’intelligenza strategica collettiva rispetto al sentimento generale con cui una determinata azione viene accolta. Il discorso non è, come si potrebbe erroneamente pensare, pretendere di indicare cosa è giusto e cosa è sbagliato in assoluto. Il discorso verte piuttosto su una questione di immaginario. Occorre quindi alimentare giorno per giorno un immaginario “altro” che sia desiderabile e reale, capace quindi di avere qualcosa di meglio da proporre rispetto al sogno di un’automobile di lusso. Su questo, purtroppo, il movimento rivoluzionario è ancora troppo carente.
7. Centrare l’analisi della giornata su alcuni gesti tutto sommato secondari rischia di far perdere di vista il fatto che l’obiettivo che si sono dati tanti manifestanti è stato in parte raggiunto: la zona rossa è stata rifiutata con chiarezza. Per chi c’è stato, per chi ha un minimo di onestà intellettuale, la situazione era chiara: non c’è mai stato unicamente un blocco nero che spaccava tutto a caso ma un concatenamento eterogeneo di persone che ha voluto dirigersi verso l’obiettivo iniziale della manifestazione, il centro di Milano. Erano molti di più di qualche centinaio di cui parla la stampa. Sarà mai che dietro quelle sciarpe nere c’era qualche occupante di casa, qualche precaria, o qualche studente incazzato?
8. Degli errori sono stati commessi, come ne commettono sempre i rivoluzionari mentre tentano di aprire o di cogliere delle possibilità di conflitto. Chi non ci prova mai, chi auto-riproduce sempre sé stesso e non si rimette mai in questione, chi, anche in buona fede, aspetta da sempre che arrivino le giuste “condizioni oggettive” di certo non rischia di sbagliare. Rischiare però non significa mettere in pericolo anche chi non è disposto a mettersi in gioco in prima persona e crediamo che i manifestanti organizzati per l’autodifesa del corteo l’abbiano dimostrato. Forse anche questo aspetto non è stato notato da chi aveva già deciso di accettare di fatto al divieto della questura e di stare il più lontano possibile da ogni forma di conflitto. E’ d’altronde ingenuo credere che dopo sette anni di silenzio mediatico nonostante gli innumerevoli scandali di Expo, bastasse sfilare pacificamente per convincere i media che i No Expo hanno ragione.
9. Riprendere la strada della lotta quotidiana, contro l’Expo, nei quartieri, per l’abitare, non sarà di certo facile e la repressione proverà ad ostacolarci ancora di più. Ma facciamoci una domanda, senza polemica, una domanda onesta: se non ci fosse stata quella prova di conflitto, con che faccia si poteva tornare in quelle lotte, dopo aver proclamato in mille modi che l’inaugurazione di Expo andava ostacolata, scioperata, sgomberata? Allora parliamoci chiaro: vogliamo la rivolta ma senza i rivoltosi, con i loro pregi e i loro difetti? Vogliamo manifestare ma solo quando e dove ce lo dice la polizia? Vogliamo la MayDay internazionale ma solo con ordinate delegazioni di rappresentanza? Vogliamo i Greci ma solo di Syriza? Vogliamo la rivoluzione gentile, senza problemi, senza repressione? Vogliamo il conflitto ma solo a parole? Ricoprire le pareti dei nostri posti, i nostri manifesti, i nostri vestiti di bandiere rosse, nere, curde, di immagini di rivolta e di barricate, riempirci la bocca di slogan altisonanti e mai dare un contributo, anche rischiando di sbagliare, per fare in modo che quell’immaginario si riversi nelle strade?
10. E se non fosse successo nulla? E se fosse stata una manifestazione come le decine a cui giustamente partecipiamo il resto dell’anno? È da questa domanda che dovremo partire per riuscire ad affrontare con sincerità la complessità della giornata del Primo Maggio. Non era una semplice Mayday e chi lo pensa è lontano dalla realtà. L’inaugurazione di Expo segnava un momento importante per chi lotta ogni giorno, per chi non è più disposto a subire. Non era una data come le altre perché il capitalismo italiano si metteva in mostra e festeggiava l’inizio di una nuova fase di devastazione e speculazione. Il consenso non si guadagna solo con l’enunciazione di buoni propositi, ma anche con il coraggio e con la capacità di forzare anche i nostri meccanismi di autoconservazione. Più che il consenso virtuale ci dovrebbe interessare la possibilità di sviluppare degli incontri che possano creare dei legami veri. In questo osare si può anche sbagliare, e ne siamo consapevoli, le cose non sono andate perfettamente come avremmo voluto, ma meglio trovarsi a discutere su cosa non è andato, su come possiamo migliorare la prossima volta, che dover vivere col rimorso o peggio ancora autocelebrare la propria “integrità politica”. A chi invece sputa sulla costruzione politica che componeva uno degli spezzoni variegati del corteo, diciamo che le situazioni non sono solo da godere a proprio piacimento, ma anche da costruire.
11. Mentre c’era in corso la MayDay a Milano i rivoltosi di Baltimora spaccavano vetrine di banche tra le urla festanti della gente e i compagni di Istanbul attaccavano la zona rossa e resistevano alla polizia. Ma si sa, il Black Bloc a distanza è sempre più bello e la zona rossa del vicino è sempre più rossa. Siamo consapevoli della differenza del contesto sociale e della composizione delle piazze in cui questi riotavvengono. Ma non c’è bisogno di andare lontano ed evocare questi esempi, o Kobane o Ferguson, per evidenziare il conservatorismo di alcuni politicanti di movimento: basta tornare a novembre 2014 e ricordare che mentre i quartieri popolari di Milano erano in rivolta qualcuno preferiva tenersi stretto le proprie “conquiste”, senza cercare di contaminarsi o di incuriosirsi. Le rivolte si parlano, si rispondono più velocemente che sui social network, hanno la capacità di cogliere il momento e hanno qualcosa da dire sul mondo, molto di più dei grigi comunicati che escono da assemblee di addetti ai lavori senza passione, senza amore, senza gioia. Le tristi beghe egemoniche e gestionali, la contabilità tra le parrocchie di movimento fa dimenticare a molti che fuori c’è un mondo a cui non frega niente di queste piccolezze.
12. Ancora una volta il gioco della divisione tra pacifico e violento è opera sia di chi governa sia di quella parte di sinistra che crede che per farsi sentire basti ridurre la questione del conflitto a un discorso morale. Non si tratta di fare l’elogio dello scontro minimizzando le infinite altre pratiche che creano avanzamento, anzi crediamo che stia proprio qui la chiave per uscire dalla falsa opposizione tra pacifico e violento. Le pratiche di lotta, siano queste una marcia popolare, delle azioni fuori dalla legalità o dei sabotaggi devono essere valutate da un punto vista strategico e non da un principio ideologico. Gli obiettivi politici non si misurano con eventuali arresti o attacchi da parte del nemico, ma con ciò che la pratica di questi obiettivi possa creare a livello di avanzamento a medio e a lungo termine. E sappiamo bene che saremo sotto attacco anche da chi crede di avere in tasca l’abc della politica, ma sarebbe meglio che costoro guardassero fuori della finestra del proprio centro sociale perché c’è un mondo al di là della propria pratica militante formato famiglia. Per noi ciò che conta è l’avanzare delle lotte e per questo rischiamo e ci organizziamo.
13. Quello che sta accadendo in questi ultimi giorni a Milano è l’emblema dell’ipocrisia della borghesia milanese che si indigna e prende posizione contro i danni del corteo, perché difende la propria città e crede ingiusto che sia “devastata”, ma tace davanti a decenni di sventramento della città, alla distruzione di parchi e alberi per fare spazio al cemento, alla gentrification di intere zone. Così come non dice mai niente della violenza con cui nei quartieri popolari delle famiglie vengono buttate in mezzo a una strada, della speculazione edilizia che arricchisce sempre di più la mafia del mattone, del lavoro gratuito per i giovani precari che vogliono costruirsi un futuro. L’operazione #NessunoTocchiMilano ci sembra un automatismo del cittadino che per lavarsi la coscienza scende in piazza, così come adotta un figlio a distanza per sentirsi solidale. I riflettori a un certo punto si spegneranno e i muri torneranno ad essere imbrattati non solo dai No Expo ma anche dai tantissimi ragazzi e ragazze che scrivono la propria storia, lasciando il segno del proprio passaggio sui muri.
14. Saranno tempi difficili, su questo non ci sono dubbi, ma crediamo che questa scommessa andava fatta e che i risultati politici li vedremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Non accettiamo il ricatto per cui si dice che da ora gli spazi di agibilità saranno ristretti e quindi era meglio non fare niente. Forse la gestione dell’ordine pubblico a Milano cambierà e lascerà meno margini, ma la pacificazione a cui ci avevano abituato e su cui faceva leva la questura andava superata. Non è con la convivenza pacifica ma è solo con la lotta che riusciremo a strappare l’agibilità politica che la controparte ci vorrà togliere nei prossimi tempi. Sui territori raccoglieremo la forza o la debolezza delle nostre scelte, la sfida ora è quella di allargare, di conoscere nuovi amici, di tessere nuove relazioni, di scoprire nuove lotte. Ci sono vari compagni e compagne arrestati: a loro va la nostra intera e sincera solidarietà. Strano e assurdo pensare che i devastatori dei nostri territori vogliano riutilizzare l’accusa di devastazione e saccheggio come vendetta contro chi individueranno come colpevoli di aver rovinato la festa ad Expo. Si parla di un reato che prevede una pena che arriva a 15 anni. E su questo c’è da riflettere sopratutto quando ci si abbandona facilmente a condanne: non possiamo lasciare soli i compagni arrestati o che lo saranno in futuro, che facciano parte della nostra collettività o meno. Crediamo sia giusto lanciare da subito un appello a sostenere questi compagni e ad attivarsi ognuno nelle proprie città per rompere l’isolamento che cercheranno di creare loro intorno.
15. Le giornate come questa forse hanno tanti difetti però sicuramente un pregio ce l’hanno: quello di segnare uno spartiacque tra chi lotta misurandosi con la realtà per tentare di cambiarla e chi condanna, si indigna o pretende di dare lezioni. In questi giorni abbiamo visto un’istantanea di due mondi inevitabilmente inconciliabili: la società per bene, che abita le vie ricche del centro e insieme a Lega e PD cancella la scritta “Carlo vive” da una parte, e le migliaia di “Carlo” senza nome e col cappuccio che hanno resistito nelle strade. Lasciamo ad altri la posizione altezzosa di chi si permette di giudicare da lontano quale riot sia giusto e quale è sbagliato e scegliamo di stare ancora una volta in mezzo alla mischia, in mezzo alle contraddizioni, dove sta il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.
Sempre per l’autonomia diffusa
Milano, 4 maggio 2015
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